I volontari di don Ferdinando

Don Ferdinando ha vissuto come uno dei propri ruoli più significativi quello di selezionare, formare e inviare volontari a lungo termine nei Paesi in via di sviluppo. In questo filmato ne parla, sotto il video c’è il suo racconto in prima persona. Ma ricordiamo anche sue alcune pubblicazioni sull’argomento: un testo sul volontariato internazionale, un capitolo sul volontariato di un libro del 2010, la voce sul volontariato nel dizionario di omiletica, un testo su origine e spiritualità delle associazioni salesiane di volontariato, un intervento sui 25 anni di vita del VIS (Volontariato Internazionale Salesiano) da lui a lungo diretto.

Il primo invito ad un giovane perché facesse un servizio di volontariato prolungato nel tempo l’ho rivolto il 30 agosto 1978 a Guido Acquaroli. Eravamo a Musha in Rwanda al termine dell’esperienza formativa di un mese durante la quale avremmo dovuto iniziare i lavori del primo progetto di cooperazione degli Amici del Rwanda, un acquedotto indispensabile a tutta la regione. I container con le pompe, i tubi e tutte le attrezzature erano finalmente arrivati proprio alla vigilia del nostro ritorno in Italia; era necessario che qualcuno si fermasse a coordinare i lavori. Ricordo che nel mio cuore si alternavano la preghiera per capire quale soluzione trovare e quella che chiedeva allo Spirito Santo di aprire il cuore di Guido. La sua risposta positiva non arrivò per un entusiasmo superficiale ma era motivata dalla convinzione che la vita è un dono da “condividere”, soprattutto con i più poveri.

Oggi mentre scrivo, Guido è ancora volontario: mi viene spontaneo dire che ha fatto carriera, perché si è sposato, ha portato la famiglia in Rwanda, dove ha vissuto i giorni tragici del genocidio, salvando da morte molte persone, poi è stato volontario in Albania, in Burundi, in Congo, e ancora in Rwanda. Possiamo dire che la sua vita è stata determinata da quella sua adesione al mio invito. È una constatazione che ho verificato in tanti altri casi. “Questa esperienza mi ha cambiato la vita” è la frase con cui il volontario rientrato normalmente conclude la sua valutazione dell’esperienza vissuta.

Operatori di pace

La lucida consapevolezza di toccare, o almeno di sfiorare i livelli profondi della coscienza dove vengono prese le decisioni che orientano la vita mi ha sempre reso estremamente rispettoso nell’accostare i giovani candidati al volontariato internazionale. Nello stesso tempo mi ha reso coraggioso nel proporre una formazione che mirava alla formazione dell’uomo prima che a quella del tecnico.

Rifletto e cerco di fare sintesi di tanti anni di colloqui, di corsi di formazione, di duecentocinquanta persone che si sono coinvolte per anni nelle vicende di popoli e nazioni che prima non conoscevano, di famiglie che hanno accolto l’idea di trapiantarsi in altre culture con i loro figli, di coppie che si sono formate, superando il colore della pelle, proprio perché si sono conosciute lavorando per la stessa causa.

Posso dire di aver fatto esperienza viva di quanto sia vero lo slogan che proponevo nel 1980, insieme a don Giulio Battistella e più tardi con Antonio Nanni che “la pace è spezzare insieme il pane attorno all’unica tavola arricchita dalla convivialità delle differenze”. Non ho dubbi sul fatto che il mio lavoro di formazione e accompagnamento dei volontari è stato utile tanto a me quanto ai giovani: certamente il contatto quasi quotidiano con la loro vita e le loro attese ha influenzato profondamente il mio modo di pensare e di vivere.

Un progetto di vita fuori legge

Il giovane o la ragazza che ti presenta il suo curriculum e che ti chiede di partire sono più importanti di te che li accogli perché sono portatori di sogni, di speranze, di novità, di futuro. Accoglierli e ascoltarli e, talvolta, costringerli ad aprirti il cuore e a raccontarti i loro progetti è fondamentale per capire la loro vocazione, quella che Dio ha scritto nei loro cuori, quel particolare dna spirituale che, aiutato a svilupparsi, determinerà non solo la loro esistenza, ma anche il destino di tante altre persone che la vita metterà sulla loro strada. Ecco: aiutarli a scoprire dove potranno realizzare in modo compiuto la loro esistenza è il primo indispensabile passo della formazione di un volontario.

Questo approccio ha richiesto a tutti noi del VIS una notevole disciplina e autocontrollo perché l’Organismo molte volte è pressato da esigenze urgenti di figure professionali, richieste dall’evolversi dei progetti di sviluppo o dalle imposizioni burocratiche dei finanziatori. Non abbiamo mai strumentalizzato la vita di una persona per il buon andamento di un progetto. È un peccato che abbiamo sempre cercato di evitare.

Ma, consapevole che certi orientamenti erano dovuti anche alla mancanza di informazioni adeguate, ho anche forzato la mano quando proponevo ai candidati, con passione e con esempi già vissuti, le esigenze inderogabili dei poveri. Se è giusto rispettare la vocazione del candidato al volontariato è addirittura doveroso farsi voce di chi non ha voce e far capire a chi vuol partire che il servizio del volontariato non è una stelletta da aggiungere al medagliere privato o una tappa della propria carriera, ma è la decisone di condividere i problemi di altri popoli per cercare insieme una soluzione.

Diventa fondamentale guidare il volontario a strutturare un “progetto di vita” che si estenda ben al di là dell’esperienza di qualche anno.

Questi progetto di vita viene così ad avere una duplice radice: nasce anzitutto dal percepire la situazione di condizionamento in cui ogni persona si trova a vivere, ma con particolare attenzione alla realtà disumana di una moltitudine sempre crescente di persone, di popoli interi, asserviti agli interessi dello sviluppo economico di altri paesi, e quindi condannati alla morte per fame o ad una vita senza speranza. E nasce contemporaneamente dalla consapevolezza che è possibile liberarsi e liberare solo impegnandosi con scelte di vita personali, mettendo in comune i valori e le ricchezze di ciascuno rimanendo con fedeltà insieme con le persone a condividere le situazioni di condizionamento, per superarle. Freire diceva: Nessuno libera nessuno, nessuno si libera da solo: gli uomini si liberano nella comunione.

Un gioco di squadra

La formazione del volontario non può essere compito di una persona, per quanto carismatica, né tantomeno di conferenze e libri. Il gioco di squadra è vincente. È l’aria che il candidato respira frequentando l’organismo, partecipando agli incontri, alle settimane residenziali, che lentamente raggiunge quelle profondità dello spirito in cui si maturano gli orientamenti da cui dipendono le scelte quotidiane. Quindi è lo stile con cui vive normalmente il personale dell’organismo, lo spirito che anima i rapporti interpersonali che crea l’ambiente adatto alla formazione. Andando frequentemente a visitare i volontari sul campo ho constatato che l’empatia che si era creata nel momento iniziale della formazione, continuava ad operare silenziosamente, a distanza di migliaia di km, perché il volontario si sentiva parte di un organismo vivo in cui i valori umani e la solidarietà non erano i precetti di una “carta”, ma la vita concreta di tutte le persone che aveva incontrato al VIS e che continuavano a seguirlo.

La squadra dei formatori si è ispirata al principio che la formazione non è la relazione di aiuto di un “qualcuno” che sta ad uno stadio superiore nei confronti di chi è inferiore. Ci siamo coinvolti tutti sullo stesso piano valorizzando naturalmente il potenziale umano e culturale presente in ognuno di noi. Siamo diventati sempre più coscienti di un processo di reciprocazione che permette di «educarsi-con-e-grazie-all’altro».

Approccio basato sui diritti umani

C’era una volta il volontariato… basato sui valori interiori, sulle scelte di coscienza, su qualità morali che di decennio in decennio, con l’evolversi delle ideologie, si è trasformato in una varietà di prassi operative. Oggi nei giovani che chiedono di partire c’è la preoccupazione di trovare uno sbocco concreto di vita, una possibilità di spendere bene il patrimonio culturale acquisito, di avere un reddito, per quanto ridotto, che consenta di impostare autonomamente la vita.

Contemporaneamente anche la situazione dei Paesi Poveri è cambiata, non è più pensabile una cooperazione allo sviluppo che non tenga conto del partenariato, dei Diritti Umani. Lascio la parola a Carola Carazzone: «La visione antropologica cristiana e salesiana si è sposata, da un lato, con la visione dei ragazzi più poveri e vulnerabili come soggetti di diritti, anticipata da Don Bosco fin dall’inizio ed esplicitata, a livello di diritto internazionale, nella Convenzione ONU del 1989 e, dall’altro, con la visione di sviluppo umano di Amartya Sen (che tra l’altro il VIS ha portato in Italia alla settimana di educazione alla mondialità nel 1997) come sviluppo delle persone, attraverso le persone e per le persone (persone intese come individui ma anche nelle loro dimensioni sociali)».

Questa specifica visione di sviluppo umano e sostenibile richiede una nuova tipologia di volontario. Persone con una preparazione culturale specifica caratterizzata da un approccio metodologico basato sui diritti umani. Persone consapevoli di dover facilitare nelle persone con cui si trovano a lavorare nei Paesi Poveri l’ampliamento delle loro capacità individuali e sociali: non ci sarà vero sviluppo umano se non saranno loro i protagonisti del loro sviluppo, se non ci sarà la costruzione e il rafforzamento «delle capacità dei titolari di diritti di rivendicare e godere dei propri diritti fondamentali e delle capacità dei titolari dei correlati doveri di adempiere ai loro obblighi».

L’impronta salesiana: l’aspetto educativo

Tutti i nostri volontari condividono praticamente il lavoro con una Comunità salesiana indigena che si ispira al Progetto Educativo Pastorale Salesiano. Di fatto questa situazione lo rende membro attivo e responsabile della Comunità salesiana e umana in cui è inserito. È una ricchezza perché entra in contatto dal vivo con la metodologia educativa salesiana, ma è anche una ulteriore esigenza di conoscenze: pedagogia, sociologia, psicologia.

Il cammino di fede personale e la vita pastorale della Comunità salesiana in cui vive il volontario, dovrebbero arricchire il cammino formativo del volontario e permettergli di arrivare ad una sintesi che certamente avrà delle caratteristiche salesiane.
Ritengo che non si possa parlare di Volontariato salesiano nel senso che esista una tipologia differenziata e in qualche maniera determinata nelle sue linee fondamentali dalle peculiarità della vita salesiana. Ma si dovrebbe invece parlare di volontari con «caratteristiche salesiane»: questo ci apre in certo modo al dialogo adulto, al rispetto della personalità del volontario che aiutiamo a crescere nella sua individualità. Certamente gli proponiamo il quadro di valori che si ispira a Don Bosco, gli suggeriamo una metodologia che sgorga dal Sistema Preventivo, ma non lo catturiamo come «nostro». Anzi saremo gioiosamente sorpresi di scoprire che volontari che non provengono dai nostri ambienti o non lavorano con noi hanno «caratteristiche salesiane».

In sintesi: il nostro rapporto con il volontario è di formazione liberante; lo aiutiamo a formarsi perché possa volare libero e scegliere la strada che il Signore gli indica. Siamo interessati al tipo di personalità che ne scaturirà. La sua competenza professionale, che dovrà caratterizzare la sua vita anche dopo il servizio di volontariato, e la sua capacità di analisi, diagnosi, progettualità… sarà una ricchezza umana da spendere a favore della folla immensa di giovani poveri che oggi costituiscono la metà dell’umanità.

Non esiste un volontariato cristiano da contrapporre ad altri volontariati. L’attitudine stessa di volontariato fa parte dei valori evangelici.

Cristo è il volontario del Padre: si fa prossimo ad ogni creatura, assumendone la natura, le vicende storiche, il carico del male, per risorgere insieme ad ogni creatura, definitivamente liberata, per una realizzazione che sfocia nell’eternità.

Questo atteggiamento di Cristo che afferma di essere venuto a servire e non a comandare, che misura l’amore per lui sul servizio al più piccolo, che ha misericordia delle folle affamate e mobilita tutto il suo gruppo per risolvere il problema… è in definitiva il modello di uomo credente che il Vangelo propone.

Il credente in Cristo è una persona che ha il baricentro sbilanciato verso il prossimo; questo atteggiamento interiore determina una vita dinamicamente protesa al servizio.

Volontario non è colui che fa, ma colui che è, che è in un cammino progressivo di strutturazione della propria personalità verso l’oblatività, il dono di sé.

E’ un processo di crescita che si rafforza e si orienta ad ogni nuova occasione di servizio: praticamente coincide con la maturazione umana.

Questa crescita non è garantita automaticamente, è frutto di educazione e di scelte volute, di modelli e di esperienze. Soprattutto la libertà personale gioca un ruolo determinante e proprio per questo ha senso confrontare le scelte e le motivazioni con il quadro di valori proposto da Cristo. E’ in gioco la realizzazione personale.

L’elemento determinante è “possedere e guidare la propria vita”, decidere dal profondo le proprie scelte; il quadro dei valori e delle motivazioni deve precedere, almeno come logica, quello dell’incontro con le persone, delle emozioni; le situazioni di necessità dell’“altro”, del povero, non devono essere il movente delle nostre decisioni, ma semplicemente l’occasione dell’impatto concreto. In fondo un volontario non è tale quando “parte” e perché parte, ma lo è per la tensione che unifica tutta la sua vita, ovunque si trovi: possiamo dire che essere volontari è più uno stile di vita che una specifica attività.

La gratuità, come attitudine ad un servizio altruistico e disinteressato, come tendenza a dimenticarsi di sé per il bene degli altri, come dono della propria vita, è l’aspetto più evidente e anche più costruttivo di questo stile di vita.

L’utopia a cui tende il volontario è la libera decisione di condividere con scelte varie, ma progressivamente impegnative le situazioni di emarginazione, sottosviluppo, alienazione, dovunque si presentino per camminare insieme verso una liberazione totale dell’uomo. Uomo, liberazione, servizio, impegno sono termini che prendono il loro significato più autentico nell’esperienza di Cristo

Nessun volontario senza progetto, nessun progetto senza volontario

Poiché noi lavoriamo per lo sviluppo umano, la risorsa umana è indispensabile: “È l’uomo l’artefice dello sviluppo, non il denaro o la tecnica” (RM 52). Ma altrettanto importante è che il volontario senta di essere il realizzatore di un preciso progetto, frutto di ricerca e di esperienza: non quindi un generico e volenteroso “tuttofare”.

Il volontario internazionale rappresenta infatti il ponte culturale che collega due mondi per uno scambio di ricchezze, un ponte “umano” che rende progetti e finanziamenti altrettanto “umani”. È un vero e proprio ambasciatore dell’organismo a cui appartiene e che lo invia e svolge la funzione di mediatore e di collegamento tra due culture, a volte molto distanti tra loro non solo geograficamente. La sua stessa funzione di svolgere un compito di promozione umana esige come condizione di efficacia che si impegni a comprendere in profondità realtà e cultura locali per poter diventare, in un certo senso, portavoce dei poveri e loro interprete nel proprio Paese d’origine.

Questa importantissima mediazione fa sì che il progetto di sviluppo abbia un risvolto anche nei cosiddetti Paesi ricchi, i Paesi promotori: un risvolto educativo interculturale che permette ai vari organismi di elaborare progetti sempre più mirati e corrispondenti alle effettive esigenze dei Paesi Poveri, ma soprattutto che permette di educare alla mondialità, alla intercultura al riconoscimento dell’interdipendenza dei popoli, alla pace.

La professionalità del volontario deve essere quindi unita ad una capacità di contatto umano e di conoscenza della lingua locale che privilegia i valori dello spirito. E poiché la vita del volontario trasmette, silenziosamente, il quadro dei valori in cui crede, la scelta di fede cristiana, vissuta concretamente, è la ricchezza qualitativamente più significativa che il volontario trasferisce nelle persone con cui condivide la sua esperienza.

Partenariato o sportello bancario

Relazioni difficili con le comunità salesiane.

Poiché tutti i progetti del VIS hanno come partner una Comunità salesiana è certamente

necessario un cammino di formazione che permetta al candidato di affinare le motivazioni che lo inducono a partire perché possa distinguere chiaramente tra un qualunque altro lavoro e la decisione di condividere la filosofia del VIS, gli obiettivi educativi della Congregazione salesiana, la condivisione della vita di una Comunità religiosa, l’interazione diretta con i poveri.

Lavoratore e/o volontario? In particolare il sostegno, la protezione e la valorizzazione della vita del volontario devono essere realizzati con criteri ben diversi dal concetto di stipendio, di carriera, di gerarchia usuali nel mondo del lavoro.

È interessante vedere che nella fase di studio del progetto il VIS è accettato come partner e i compiti o le responsabilità affidati ai volontari sono condivisi dalla Comunità salesiana: i volontari sono solo sulla carta e non fanno problema. Nella fase di realizzazione del progetto la Comunità salesiana si sente spesso espropriata della gestione del progetto proprio per la presenza dei volontari, che in realtà rendono presente sul posto l’organismo.

Nel panorama del volontariato salesiano il VIS è praticamente l’unico Organismo che “paga” i volontari, detiene la gestione economica e finanziaria dei progetti, mantiene stretti rapporti operativi con i volontari, vuole una loro privacy, guarda principalmente allo sviluppo umano dei destinatari. Mentre le Comunità salesiane vorrebbero “aiutanti” che “appartengano” essenzialmente a loro, senza essere eterodiretti, che siano funzionali alle attività interne alla comunità e quindi facilmente pilotabili senza pretese economiche o abitative.

In tutti i casi in cui la presenza dei volontari VIS si è prolungata negli anni mantenendo la gestione economica, anche solo parziale, si è giunti ad una forma di saturazione che genera nella comunità salesiana una forte insofferenza come se si trattasse di intromissione. Lo snodo difficile è quello della «Comunione e condivisione tra laici e consacrati nello spirito e nella missione di Don Bosco» alla quale appunto è stato dedicato il 24 Capitolo Generale della Congregazione, ma che non è ancora penetrato nella mentalità di molti salesiani.

Verso cieli nuovi e terra nuova

Nella crisi di vocazioni che si consacrino per un tempo indefinito, questa disponibilità di laici, la presenza di uomini e donne, coppie sposate con o senza figli, per tempi limitati e compiti definiti va ripensata come un apporto nuovo alla missione salesiana.

Potrebbe essere un ritorno a quella testimonianza globale, di tutta la società che aveva spinto Don Bosco a delineare una Congregazione che, con i Salesiani Cooperatori, sapeva coinvolgere nell’educazione dei più poveri, tutti i credenti nel loro stato di vita.

Storie di vita di volontari

In questa situazione assumono particolare valore alcune delle storie concrete.

Alda Gravina, in Brasile dal 1994 al 1996 tra gli Yanomami, dal 1996 al 1998 a Manicorè (Brasile) e in Angola a Lwena nel 2001. Due anni tra gli Yanomami e poi altri due tra i coloni per i quali organizza un battello sanitario (la “barca ospedale”) per raggiungere 93 piccoli insediamenti sulle sponde del fiume Madeira.

Francesco Capodieci e Emma Colombatti, a Manicorè (Brasile) dal 2004 al 2008.

Sono partiti con 2 figli: Chiara, Gabriele come famiglia missionaria. Si sono occupati dell’oratorio di Manicorè, per mesi affidato in tutto e per tutto a loro (a causa di malattie varie dei Salesiani), attività ludiche, di recupero scolastico, di formazione di animatori tra i ragazzi più grandi, di sostegno alle famiglie (sostegno sia economico che psicologico, di vicinanza e amicizia). E quando decidono di adottare una bimba locale ecco che il Signore regala loro il terzo figlio, Josivanda, una bambina nata in Brasile nel 2007.

Alcuni hanno costruito la loro famiglia con persone del posto:

Paolo Sassaroli, a Luanda (Angola) dal 2001-2002. Sposato con Suzana Neto, hanno un figlio, Francesco. Lui è tecnico informatico e risiede a Luanda con la famiglia.

Sergio Pitocco, a Luanda (Angola) dal 2001 al 2005. Sposato con Nela, hanno 2 figlie, Chana e Nadia Maria Bruna. Vivono ancora Luanda, lui lavora per il CIES, ONG italiana.

Altri hanno scelto la vita religiosa:

Sergio Sala, a Matriz de Camaragibe (Recife), Brasile dal 1992 al 1995, ora sacerdote Gesuita missionario.

Cynthia Capodarte e Susanna Simonetti, ora suor Maddalena Capodarte e suor Susanna Simonetti, clarisse di clausura. Hanno fatto l’esperienza nella missione salesiana di Viro Viro nel Chocò (Colombia) e, tornate, hanno fatto la scelta di vita religiosa.

Stefana Morlacchi, suor Stefania Maria di Gesù Risorto, suora di clausura Carmelitana a Pescara, volontaria a Lwena (Angola) nel 2002-2003.

Farmacista, ha lavorato nei posti di salute coordinando le attività degli infermieri, organizzando corsi di riqualificazione e organizzando i laboratori di analisi.

Imprenditori di se stessi

Il momento più difficile per i volontari è il rientro. Si tratta di ricostruire i rapporti in Italia dopo anni di assenza, cercare il lavoro, mettere a frutto le competenze acquisite e soprattutto non rinunciare alle scelte dei valori che hanno determinato la loro partenza.

Per questo da anni vado insegnando che devono essere loro stessi a fare un progetto di vita che valorizzi il loro vissuto. Condensandolo in uno slogan sono solito dire: siate imprenditori di voi stessi.

Alcuni sono stati integrati nel nostro organico di lavoro:

Gianluca Antonelli, volontario a Tirana (Albania) dal 1999 al 2002

Ora è il Direttore Generale del VIS.

Carola Carazzone, volontaria in Albania nel 2001

Ora responsabile del settore “Diritti Umani” del VIS, riconosciuta a livello nazionale come la più profonda conoscitrice dei Diritti Umani dei minori, candidata alla Presidenza del VIS.

Andrea Sartori,volontario in Togo con la moglie Laura; oggi hanno quattro figli e Andrea, Diacono dal 22 novembre 2008.

Anche altri lavorano o hanno lavorato al VIS: Mimma Bombara, Valeria Rossato, Laura Bernardi, Alessandra Fiorillo.

Micaela Carlotto e Lorenzo Pegoraro, volontari a Juina (Brasile) dal 2000 al 2004

Hanno 2 figli, Samuele e Maddalena, hanno gestito una casa famiglia che i salesiani hanno affidato loro ad Albarè di Costermano, in provincia di Verona.

Alessandro Iannini e Agnese Vincenzi, volontari a Tirana (Albania) dal 1995 al 1997

Hanno 3 figli: Daniele, Luca e Marco. Alessandro, psicologo, è stato responsabile del Centro per minori del Borgo Ragazzi don Bosco e del gruppo di Famiglie Affidatarie, nonché il servizio di assistenza socio pedagogico “SOS giovani”.

Matteo Radice e Laura Scalvenzi, volontari a Macas (Ecuador) dal 2002 al 2007 e poi in Egitto

In Ecuador hanno adottato una bambina, Claudia. Lavorano ancora per il progetto sulla biodiversità in Amazzonia, per estenderlo ad altri Paesi e potenziarlo nella distribuzione in Italia dei prodotti.

Paolo Berro

Merita una parola speciale: dopo aver conosciuto droga, carcere, ecc. incontra i salesiani, vive alcuni anni in comunità di ricupero e matura una nuova spiritualità cristiana molto profonda e genuinamente solidale. Chiede di partire volontario e lo inviamo in Bolivia per un progetto di ricupero dei ragazzi di strada. Ci lavora per tre anni divenendo il punto di riferimento di centinaia di ragazzi disperati che trovano nel suo modo di fare un più facile approccio con un cammino di ricupero.

I danni fisici inferti dai disordini giovanili arrivano purtroppo alla conseguenza finale e Paolo entra in Paradiso il 19 dicembre 2007.

Ho scelto una delle sue mail scritte prima e durante il servizio di volontariato e che vorrei pubblicare perché delineano un autentico cammino di santità laicale ispirata all’immedesimazione con Cristo e le sue sofferenze, ma soprattutto al desiderio di essere Cristo che serve per i ragazzi più poveri.

«La mia vita fino ad oggi non è stata “tranquilla” in questi 43 anni, la mia carovana è passata in mezzo a centinaia di tempeste di sabbia, ha attraversato deserti di dolore e di sofferenza. Si è fermata ed è ripartita sempre lasciandosi qualcosa alle spalle e caricandosi di altre.

Ho conosciuto passioni travolgenti, volti di donne che ricordo, altri che sfumati e incerti mi riportano profumi, odori, colori. Ho amato per brevi e fugaci momenti, occhi a mandorla, capelli corvini, pelli bianche, occhi azzurri, pelli ambrate. Ho sussurrato parole d’ amore in lingue diverse, in luoghi diversi, tra le palme e l’oceano, sulle rive del Nilo, ai piedi di templi Greci tra gli ulivi dove passeggiavano Aristotele e Socrate. Mai pago, mai abbastanza sconfitto da mollare, la mia ricerca era profonda, il mio orgoglio smisurato, la mia curiosità sempre viva.

Ho pagato a caro prezzo tutto questo. Ho perso più volte la libertà, costretto e rinchiuso in pochi metri di spazio, ma nessuno è mai riuscito a togliermi la libertà di pensare, di sognare, di cercare di conoscere e di capire. Ho provato i morsi della fame tra le vie di Den Haag in Olanda, e i morsi della sete del totale e sconsiderato abbandono all’oblio e alla stupefacente autodistruzione. L’ abisso e la depravazione, a caduta libera verso profondi e sconosciuti anfratti in cui cercavo nascondendomi, di punire la mia arroganza. Molte volte ero così lontano dalla ragione, così schiavo di questo mio bruciare e demolire tutto, da rischiare un viaggio senza ritorno.

Ho fatto molto male, ho fatto soffrire molte persone, ho usato ed ho subito violenza, cieco e sordo ero morto dentro. Marcio, insensibile, canceroso.

Ma non avevo fatto i conti con Dio, con Abbà, con Papà.

Lui mi ha lasciato fare, con dolore, con tristezza, volutamente impotente ad osservare. Mi parlava ma io non ascoltavo, metteva sulla mia strada persone meravigliose, ma io neanche me ne accorgevo. Come un animale impazzito e rabbioso io mi intestardivo a battere la testa sul recinto, sulle sbarre. Ma le uniche sbarre erano quelle che imprigionavano il mio cuore.

Tutto questo era la mia Via Crucis, l’ unica via che mi avrebbe portato verso “Casa”, anche io come Gesù sono arrivato a gridare disperato contro al cielo “Padre perché mi hai abbandonato”.

Io però sono solo un piccolo e stupido uomo, ma lo sono diventato solo quando mi sono arreso all’amore di Dio per me, mi sono lasciato cadere tra le sue braccia. Abbandonandomi sfinito ed esausto al suo paterno abbraccio, e lasciandomi coccolare affettuosamente.

Dio Padre allora ha preparato una grande festa per il mio ritorno, ha fatto uccidere il capretto migliore, ha aperto le botti di vino lasciato ad invecchiare… il suo perdono è ora per sempre ed io Lo imploro ogni giorno di non lasciare che io vada via , di aiutarmi ad amarlo come lui ama me, di aiutarmi ad amare gli altri con la stessa forza ed umiltà che da sempre ha cercato di trasmetterci.

Il mio viaggio ora è a ritroso, è un viaggio alla scoperta delle mie origini, che sono quelle di tutti noi; da figlio di Dio cerco di meritarmi il suo amore ed il suo perdono, anche se so già che Lui non mi chiede questo, ma ne è felice. Dio vuole solo e sempre la nostra gioia, la nostra felicità, nulla è più importante per Lui e per essere una gioia ed una felicità piene devono essere “libere”, pensate, scelte, vissute, devono essere vere e sincere.

Io ho scelto, ho intrapreso questo cammino verso casa, certo non sarà ne facile, nè indolore, nè semplice, ma ora so che Dio è con me. Non sono più solo, senza amore, senza meta…

La mia malattia arriverà, compirà il suo corso, come Grazia, Barbara, Manuel, Luca, Antonio, me ne andrò in un letto di ospedale… ma quello che mi aspetta rende tutto questo insignificante, poco importante.

Perché ora sono vivo… e se Dio vuole lo sarò per sempre…»

Possiamo racchiudere queste storie nelle parole di Giovanni Paolo II: «L’amore è e resta il movente della missione, ed è anche l’unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. È il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere» (RM 60)